“Propaganda I’m not falling for” è il nuovo trend virale: dal matcha latte ai pupazzetti Labubu, passando per gli outfit “clean girl” e la skincare routine, tutto può essere etichettato come propaganda se viene promosso a sufficienza e in modo martellante. Ma che cos’è, davvero, la propaganda?

Esempi di propaganda che ti facevano a scuola

L’origine del termine

Il termine “propaganda” deriva dal verbo “propagare”, cioè “diffondere, estendere”.  

Nasce nel XVI secolo in contesto religioso: la Congregatio de Propaganda Fide, istituita dalla Chiesa cattolica per diffondere la fede nei territori non cristiani, contrastando la diffusione del protestantesimo.

Col tempo, il concetto di propaganda ha assunto un significato più ampio, legato alla comunicazione persuasiva con l’obiettivo di trasmettere un’idea o un’ideologia.

Chiesa cattolica trendsetter

È nel corso dell’Ottocento, con l’avvento dei primi mezzi di comunicazione di massa, che la propaganda comincia a strutturarsi come strumento politico. 

Durante le due guerre mondiali il suo potere diventa evidente e diventa il mezzo perfetto per orientare l’opinione pubblica, sostenere lo sforzo bellico e legittimare regimi emergenti.

Controllo o progresso?

Negli studi sulla comunicazione di massa si delineano due visioni principali della propaganda.

Da un lato, una concezione pessimista, secondo cui i media svolgono una funzione di controllo autoritario, manipolando il pubblico e omologando il pensiero. 

Gli individui sono praticamente visti come esseri passivi facili da influenzare.

Dall’altro, una visione ottimista, che vede nei media un motore di modernizzazione, partecipazione democratica e diffusione della conoscenza. 

I consumatori sono attivi e capaci di filtrare i messaggi e scegliere consapevolmente da cosa lasciarsi influenzare.

Scegli pure... tanto è propaganda in ogni caso

A nostro gusto (ma non troppo)

Pierre Bourdieu ci ricorda che il gusto non è mai davvero individuale o “puro”: è il prodotto del contesto in cui cresciamo. Ciò che ci piace, o non ci piace, dipende dalla nostra posizione nella struttura sociale, dall’educazione ricevuta, dallo status che occupiamo. Le preferenze personali, quindi, sono sempre anche preferenze sociali.

A rendere ancora più evidente questo legame tra individuo e collettività è la moda, che secondo Georg Simmel nasce da un meccanismo di imitazione: si segue un modello dominante per cercare riconoscimento e appartenenza. 

Anche chi sceglie di “resistere” a una tendenza, in realtà, finisce spesso per aggregarsi a un altro gruppo – quello dei “resistenti”. In altre parole, anche il rifiuto è una forma di appartenenza.

Nel campo della comunicazione di massa, DeFleur e Ball-Rokeach sostengono che è impossibile sottrarsi del tutto all’influenza dei media: i messaggi circolano ovunque e colpiscono chiunque, come un “proiettile magico”.

Il gusto si forma tra spinte esterne e risposte soggettive, tra desiderio di autonomia e bisogno di riconoscimento. Anche quando crediamo di decidere in piena libertà, stiamo comunque rispondendo a codici culturali e sociali che ci precedono.

L’opposizione fa tendenza

Nel mondo dei social network, la propaganda politica è ormai una presenza consolidata, basti pensare alle campagne elettorali su X o ai post sponsorizzati dai leader su Instagram.

Ma è con trend come “Propaganda I am not falling For” che emerge una nuova consapevolezza: anche le scelte culturali, estetiche e di consumo sono influenzate da dinamiche persuasive.

Si tratta di una propaganda soft, meno evidente ma che si infiltra nei contenuti dei creators, nei brand e nei nostri algoritmi, influenzando le nostre decisioni e i nostri gusti. 

Chi partecipa al trend elenca tutto ciò che rifiuta: dai prodotti iper-promossi ai personaggi pubblici sopravvalutati, fino a concetti più ampi come il femminismo liberale, l’intelligenza artificiale o la religione.

Non manca, però, la versione opposta: “Propaganda I am falling for”, dove si ammettono le mode a cui si è felicemente ceduti.
Un paradosso che rivela la vera natura delle tendenze: si evolvono per includere tutti, anche chi si oppone.

Non c’è scampo

In un mondo in cui tutto è propaganda, anche il rifiuto rischia di diventarlo. 

Una tendenza che invita a dichiarare cosa non ci piace, cosa rifiutiamo, in cosa “non caschiamo” – non è forse anch’esso un modo per lasciarsi trascinare da una moda?

Il paradosso è evidente: più cerchi di non farti influenzare, più ti accorgi di esserlo già.
È un meccanismo che si autoalimenta. Sono sabbie mobili.

Il desiderio implicito dei social – o della società, se vogliamo immaginarla come un’entità consenziente – è quello di mantenere ordine, coinvolgere, far appartenere. E se il malcontento verso i social cresce, si crea un trend anche per quello. 

Perché tutto può diventare contenuto, anche il rifiuto.

Nel frattempo, gli individui desiderano conformarsi a qualcosa, trovare un’identità collettiva, condividere gusti anche nel dissenso.

Così individuo e società cooperano inconsapevolmente alla creazione di una realtà in cui ogni scelta, anche quella che ci sembra più indipendente, finisce per inserirci in un nuovo gruppo.

Siamo come lui ma non vogliamo ammetterlo (Il conformista di Bertolucci)

Una preferenza non crea mai vera distanza, perché anche il distacco genera appartenenza.

Apparteniamo sempre a qualcosa, perfino quando pensiamo di uscirne.

Il trend ci racconta come anche il dissenso può diventare virale e rientrare perfettamente nel sistema.

Fonti: 

  • Bourdieu, Pierre. La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 2001
  • Simmel, Georg. La moda, a cura di Franco Crespi, Roma-Bari, Laterza, 1998
  • DeFleur, Melvin L., e Ball-Rokeach, Sandra J. Teorie delle comunicazioni di massa, Bologna, Il Mulino, 1989

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