Artisti, poeti e pensatori di ogni epoca hanno tentato di dare alla fame un’anatomia. Un corpo vero, che non chiede solo cibo, ma è simbolo di qualcos’altro: annientamento e disumanizzazione nel conte Ugolino di Dante, astensione alla violenza in Han Kang.

Che volto ha la fame? Ha corpo, una storia, un pensiero?

La fame non è solo un vuoto nello stomaco: è presenza vera, una voce che si insinua nei corpi e nelle menti. Ha attraversato la storia dell’umanità in tutte le sue forme: carestia, povertà, sopravvivenza, e infine malattia mentale. Ma ha anche assunto significati simbolici, diventando allegoria di potere, controllo, colpa e vuoto emotivo.

La fame nell'arte e nella letteratura

Artisti, poeti e pensatori di ogni epoca hanno tentato di dare alla fame un’anatomia: un corpo vero, che non chiede solo cibo, bensì mira a un «oltre» forte, crudele, indefinito.

Nei Mangiatori di patate di Van Gogh, ad esempio, la fame si mostra come rassegnata fatica, emblema di un destino cui non si sfugge: la miseria della vita, la disuguaglianza. I volti sono scavati (per non dire brutti e orripilanti), e le mani callose stringono il cibo come un privilegio, non come un diritto.

il quadro in questione.

Nei tratti scuri di Saturno che divora suo figlio di Goya, la fame diventa invece allucinazione, mostruosità, terrore: è il potere che consuma, è la fame di controllo sull’altro che si diventa distruzione, desiderio di possesso.

dettaglio del quadro.

Ma la fame è anche memoria, punizione, tragica vendetta, condanna. Nella Divina Commedia, il conte Ugolino viene rinchiuso in una torre con i suoi figli e lasciato morire di fame: un destino atroce che mescola l’orrore fisico all’angoscia morale.

E nella letteratura contemporanea, come ne La vegetariana di Han Kang, la fame prende nuove forme: non più solo bisogno, ma rifiuto di esercitare violenza. Se la fame in Dante diventa odio e vendetta, la negazione del cibo in Kang è una forma di protesta che nasce dalla consapevolezza che non si può essere umani senza fare del male.

La fame, dunque, ha molte anatomie: biologiche, psicologiche, sociali, culturali. Guardarle da vicino è un modo per interrogarci non solo su cosa ci manca, ma su chi siamo quando abbiamo (o non abbiamo) fame.

La fame del conte Ugolino

Nel canto XXXIII dell’Inferno, Dante incontra il conte Ugolino della Gherardesca, un personaggio realmente esistito, accusato di tradimento politico nella Pisa del XIII secolo. Secondo la leggenda — e la narrazione dantesca — Ugolino fu rinchiuso nella Torre della Muda insieme ai suoi figli e nipoti, e lì lasciato morire di fame.

Dante ce lo presenta immerso nel ghiaccio del nono cerchio, intento a divorare il cranio dell’arcivescovo Ruggieri, suo nemico e responsabile della sua condanna. È un’immagine potentissima: la fame, in lui, è diventata odio eterno, vendetta che si consuma anche oltre la morte.

Il conte Ugolino nell'illustrazione di Gustav Doré.

Nel racconto che fa a Dante, Ugolino rievoca i giorni nella torre: l’attesa, il chiavistello che si chiude, il pane che non arriva più. I figli lo implorano di non piangere e si offrono al suo dolore, dicendo:

Padre, assai ci fia men doglia se tu mangi di noi.

Poi muoiono, uno dopo l’altro. E Ugolino resta solo, cieco, con la fame che lo rode dentro e fuori.

Fame come disumanizzazione

Il verso più discusso di tutto il canto arriva alla fine:

Poscia, più che ’l dolor, poté ’l digiuno.

Letteralmente: “Poi, più del dolore, poté il digiuno”. È un verso che lascia un dubbio inquietante: Ugolino è morto di fame… o ha ceduto alla fame, mangiando i corpi dei figli? Dante non lo dice apertamente. Lascia il lettore sospeso, nel gelo dell’orrore e della pietà.

Quella di Ugolino è una fame che distrugge il legame più sacro — quello tra padre e figli — e che si trasforma, nell’aldilà, in condanna eterna. Ma è anche una fame politica: punizione inflitta da un potere crudele, che si serve della privazione del cibo come forma di annientamento. Ugolino non è solo un personaggio punito: è anche un testimone di cosa può diventare l’uomo quando è spogliato di tutto, persino dell’umanità.

Sembra che la fame, sia un violento atto di disumanizzazione: assume le fattezze di un mostro, e si impossessa del nostro corpo, e lo fa divenire animale impotente, subordinato, tragicamente finito.

Han Kang

Han Kang, Premio Nobel per la Letteratura 2024, comprende da giovanissima che la violenza è parte costitutiva dell’essere umano. La scrittrice si interroga costantemente su come convivere con l’ambivalenza della condizione umana. La vegetariana, testo del 2007 (apparso per la prima volta in Italia nel 2016) è un testo costruito su una grande domanda di fondo: è possibile, per l’essere umano, vivere senza esercitare violenza?

Il libro racconta la storia di Yeong-hye, donna anonima e insignificante che a seguito di una serie di incubi smette di mangiare carne. La storia è divisa in tre parti, e ciascuna affronta le vicende della protagonista da un diverso punto di vista (il marito, il cognato, la sorella), frammezzati da paragrafi in corsivo in cui si descrive la vita interiore della protagonista (sogni e ricordi).

Han Kang e il suo libro.

La scelta della protagonista è radicale: già dopo il primo incubo decide di sbarazzarsi di carne, latte e uova. Questa scelta preoccupa il marito – costretto a seguire le abitudini alimentari di lei – i genitori e la sorella di lei. Durante un pranzo di famiglia, tentano con la forza di farle mangiare un pezzo di carne di maiale, ma la protagonista, pur di non farlo, sceglie di tagliarsi il polso con un coltello.

Il flashback del cane

Qui la narrazione si dipana, ed ecco che entriamo nei ricordi della protagonista. Ha nove anni, e un cane, amato dal villaggio, le ha morso la gamba.

Il cane, punito dal padre, è trascinato con una motocicletta in corsa e muore soffocato. Han Kang descrive puntualmente la situazione in cui versa il cane al sesto giro circolare della motocicletta, scena che la protagonista vive in prima persona (carne insanguinata, sangue nero che cola, bava: tutti elementi ricorrenti negli incubi di Yeong-hye).

Quella sera a casa nostra ci fu un banchetto. […] secondo il proverbio, affinché una ferita causata dal morso di un cane guarisca devi mangiare la carne di quel cane, e io ne presi un boccone. No, in verità ne mangiai un’intera scodella insieme al riso.

Fame come umanità

Alla luce del ricordo, la carne si configura come rappresentazione della violenza, di cui l’uomo sente l’esigenza di cibarsi.

La scelta di Yeong-hye al vegetarianismo non è, dunque, una scelta etica o ecosostenibile: è una scelta allegorica, dove l’astensione al consumo di carne è rappresentazione di una donna che rifiuta radicalmente ogni tipo di violenza. E così la fame, che nel conte Ugolino diventa odio e vendetta, in Kang diventa vessillo di pace.

Dafne coreana (da qui spoiler)

All’inizio del romanzo Yeong-hye fa la cosa meno insopportabile: si astiene dal consumo di carne, continuando a mangiare vegetali. Poi trova sollievo coi fiori che il cognato le dipinge sul corpo. Ma a un certo punto si rende conto che per sopravvivere bisogna, inevitabilmente, esercitare violenza. E allora decide di trasformarsi lei stessa in una pianta: vuole solo ossigeno e acqua.

Nella clinica in cui viene internata si ultima la metamorfosi di Yeong-hye. Alla domanda iniziale (è possibile essere umani senza esercitare violenza?) la risposta pare essere negativa. La protagonista, alla fine del romanzo, sceglie di rinunciare alla propria umanità, cercando di assumere i comportamenti di un albero.

Guarda, sorella, sto facendo la verticale; sul mio corpo crescono le foglie, e dalle mani mi spuntano le radici… Affondo nella terra. Di più, sempre di più, all’infinito… Sì, ho allargato le gambe perché volevo che in mezzo vi sbocciassero dei fiori; le ho divaricate completamente…

Resta, suo malgrado, umana. I succhi gastrici, non avendo altro da mangiare, iniziano a divorarla dall’interno, e Yeong-hye si lascia deperire, consumata dalla fame, mangiata da se stessa.

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