La raccolta pubblicata da Fazi Editore nell’aprile 2025 è un’antologia di poeti e poetesse palestinesi che continuano a scrivere e pubblicare nei limiti delle loro possibilità. Per ogni copia venduta, la casa editrice dona 5 euro a EMERGENCY per le sue attività di assistenza sanitaria nella Striscia di Gaza.

Il loro grido è la mia voce. Poesie da Gaza è una raccolta di trentadue poesie di autori palestinesi, scritte in gran parte a Gaza dopo il 7 ottobre 2023. Le condizioni in cui i poeti scrivono sono di estrema precarietà: c’è chi scrive mentre fugge dalla propria casa bombardata, chi scrive da una tenda dove vive come profugo, chi lascia gli ultimi carteggi prima di essere massacrato dai bombardamenti. Alcuni di questi poeti, oggi, non ci sono più.

Essere poeti a Gaza

Martedì 16 settembre 2025. Una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha concluso che Israele sta commettendo un genocidio a Gaza e che alti funzionari israeliani, tra cui il primo ministro Benjamin Netanyahu, stanno incitando a tali atti.

Come evidenzia lo storico israeliano Ilan Pappé nella prefazione, «scrivere poesia durante un genocidio dimostra ancora una volta il ruolo cruciale che la poesia svolge nella resistenza dei palestinesi.»

Poesia come testimonianza. Alla brutalità del massacro la poesia risponde come può, con la sua voce. Cerchiamo di addentrarci in queste poesie, di studiarle come si fa coi poeti di scuola: cerchiamo di capire cos’hanno da dirci i poeti di Gaza.

Poesia è casa

Il concetto di casa è per i palestinesi un tema amaro. Se guardiamo anche solo agli ultimi due anni, il paesaggio della Striscia è stato completamente compromesso: dai palazzi alla vegetazione quasi tutto è raso al suolo.

Gaza prima e dopo.

È la mancanza di una casa sicura a legare il palestinese al verso. Dalle poesie emerge con forza e con onestà assoluta il bisogno dei poeti di una casa, intesa non come luogo fisico in cui abitare (in inglese diremmo house), ma come spazio sicuro in cui concedersi la vulnerabilità (home, nella stessa lingua).

Le pareti della Striscia non sono abbastanza forti da schermarsi dai razzi, non garantiscono la sopravvivenza. L’incubo claustrofobico abita queste pagine, si confonde tra le macerie e i corpi massacrati. Scrive Yousef Elqedra (1983):

Posso scrivere una poesia
con il sangue che sgorga,
con le lacrime, con la polvere del mio petto,
con i denti della ruspa, con le membra smembrate,
con le macerie dell’edificio, con il sudore della protezione civile,
con le urla delle donne e dei bambini,
con il suono delle ambulanze, con i resti di un albero che amo,
con tutti questi volti che cercano i loro dispersi,
con la voce del bambino Anas sotto le macerie che dice: «Sono ancora vivo»,
con i corpi senza lineamenti,
con l’attesa, l’attesa, e ancora l’attesa!

Macerie, polvere, sangue, membra: tutto parla di distruzione. La voce del poeta si fa qui elenco: c’è tutta la volontà di salvare il salvabile, perché persino la distruzione è meglio dell’oblio. Anche così, torchiata fino alla polvere, quella terra resta casa. E quella casa, che i poeti scelgono di salvare dall’oblio, si fa poesia.

Il legame tra casa e poesia è fortissimo nella poesia palestinese. La casa è la misura della loro letteratura, dimensione della stessa mancanza. Occorre qui ricordare che il sostantivo arabo baīt significa, al tempo stesso, verso poetico e casa.

Nelle poesie si riflette tutta la precarietà della loro vita: vivere nelle tende, essere colpiti da pioggia e vento (un vento invasivo, metaforico, che «non chiede permesso», ma «entra da ogni fessura», come scrive Elquedra). Ai palestinesi non resta che ricordare malinconicamente e attendere la propria sorte, soggetti agli umori di un nemico che di fatti non c’è.

Il “nemico”

Nelle poesie della raccolta il tema della violenza è centrale. Si parla di razzi, di bombe, di palazzi caduti, di paesaggi sfregiati. Ma c’è un grande assente: il nemico.

In tutte le poesie scelte dai curatori (e sono abbastanza da credere che sia una tendenza generale) non ci sono riferimenti alla fazione che colpisce, che uccide, che massacra. Solo in una poesia si fa riferimento al «servilismo dell’America»; ma di Israele non c’è traccia.

Per scrivere una poesia non politica,
devo ascoltare gli uccelli,
e per sentire gli uccelli
bisogna far tacere gli aerei da caccia

(Versi senza casa, Marwan Makhoul)

Ci sono però i proiettili, le prigioni, le ferite, i razzi, i morti, la fame, l’assedio. La poesia ci chiama e si fa carne: sono versi senza rima, irregolari, perché figli dell’estemporaneità. Non c’è tempo di fare una poesia bella, lirica: se la poesia è casa allora è una poesia massacrata.

La poesia palestinese ci chiama e si fa carne, si innalza a testimonianza estrema e disperata. Ma allora perché non c’è traccia degli israeliani?

La verità è che a Gaza non c’è una guerra: non ci sono eserciti che si scontrano. Non si trovano soldati, ma si trovano proiettili; non si trovano bombardieri, ma droni. Nella distruzione totale, randomica, perpetrata ai danni del popolo palestinese, l’immagine del nemico sembra disperdersi, non è necessaria.

Sumūd

Alla luce di dati sempre più preoccupanti – ad agosto 2025 si attestavano circa 246 giornalisti uccisi dalle forze israeliane a partire dal 7 ottobre 2023 – le voci dei poeti restano le testimonianze più vive e oneste di ciò che sta accadendo nella Striscia.

C’è la cruda malinconia dell’essere estirpati da una terra che si sente propria, che si fa quasi fatica a riconoscere. C’è la fretta di un padre, che vorrebbe che suo figlio vedesse la terra in cui è nato prima del massacro:

Non c’è più tempo,
quindi non indugiare nel ventre di tua madre, figlio mio,
affrettati a venire,

non perché ti desideri,
ma perché la guerra è scoppiate e temo che tu non possa vedere
la tua patria come l’ho desiderata per te.

(New Gaza, Marwan Makhoul)

Oppure c’è chi non si arrende, continua a scrivere per testimoniare, per vincere contro l’oblio:

Scriverò
Dalle tenebre delle caverne
Forse potrò risuscitare il fiore del mattino
Perché la poesia
È come il filo delle spade
Come il tuono del cielo
Perché tutti i proiettili che hanno sparato
Per soffocare le parole
Per uccidere la nostalgia, per uccidere l’antico e il nuovo
Per il nostro annientamento
aumentano la resistenza
rafforzano la volontà

(Senza titolo, Dareen Tatour)

È sempre Elqedra a fare riferimento, come ultima parola di una sua poesia, al concetto di Sumūd, termine arabo intraducibile per la sua profondità, ma che incarna una combinazione di resilienza, resistenza e determinazione di fronte alle avversità.

Haidar al-Ghazali

Questo articolo uscirà il 22 settembre 2025. In Italia è sciopero generale per bloccare il Paese contro il genocidio in Palestina.

Voglio concludere con un poeta giovanissimo, classe 2004, e voglio dedicare quest’ultima poesia a tutti coloro che, nel loro piccolo, stanno cercando di far sentire la propria voce contro i giochi di palazzo che da anni, tanti anni, i palestinesi sono costretti a subire.

Oggi
i giovani liberi si sollevano nelle università
e lanciano la loro voce nel vento.
Oggi vediamo cuori sgozzati come i nostri
e piangono per le madri che non hanno trovato tempo
per piangere.
Oggi
i giovani liberi si sollevano nelle università
e non verrà promosso
chi non supererà l’esame di umanità.

Oggi il mondo mostra una certa giustizia,
una certa umanità,
il loro grido è la mia voce
e il loro sangue è il mio

(25/04/2024)

Fonti

Tutte le poesie citate sono state prese dall’antologia citata. Le traduzioni dall’arabo sono di Nabil Bey Salameh; dall’inglese di Ginevra Bompiani ed Enrico Terrinoni.

Potete acquistare il libro qui.

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