Cosa c’entrano i boomer, i social e i neologismi con la paura che l’italiano stia morendo? Spoiler: nulla. Li abbiamo sempre usati. Solo che prima nessuno si lamentava quando dicevamo “garage”.
La lingua italiana e i prestiti: storia vecchia, ansie nuove
“Ma se abbiamo l’italiano, perché diciamo meeting?” — chiede zio Franco alla grigliata di Ferragosto, mentre versa il Tavernello. Il suo tono è accusatorio, come se avessimo appena bruciato una copia della Divina Commedia in giardino. Gli brucia, sì, perché lo sente come un tradimento identitario. Ma forse non sa che l’italiano che parla, quello che ha imparato da piccolo e usato per tutta la vita, è una lingua che da sempre fa la spesa nei supermercati altrui. Il problema, caro zio Franco, è che tu questa storia l’hai già vissuta. Solo che allora si diceva garage, bistrot, marzapane o tamarindo. Sì, anche tamarindo è un prestito linguistico. Dall’arabo, per la cronaca.

Il processo si chiama prestito linguistico. E non è un’invasione barbarica – è un mutuo a tasso zero. Abbiamo preso dal francese (chef, buffet, collage), dallo spagnolo (macho, fiesta), dal tedesco (blitz, kitsch), dall’arabo (algebra, zucchero, sciroppo), dal greco (dramma, problema), dal latino (beh, tutto). Oggi tocca all’inglese, perché è la lingua dominante del nostro tempo.
La verità è che lingua è una creatura sociale, viva, dinamica, e riflette anche i rapporti di potere. Non “degenera”, evolve. Cambia per adeguarsi alla vita dei suoi parlanti. E nessuno è mai morto per aver detto weekend invece di “fine settimana”.
I social cambiano la lingua? Sì. Ma non sono il male.
Diciamocelo: i social non hanno ucciso l’italiano, gli hanno solo messo gli occhiali da sole e fatto dire “bro”. I neologismi come cringe, flexare, shoppare o ghostare sono figli di internet, è vero. Ma sono anche lo specchio di una lingua che cambia con i suoi parlanti. La lingua non è un museo. È una chat di gruppo alle 3 di notte in cui qualcuno ha appena scritto “è troppo vibe questa roba”. Forse a te fa venire l’orticaria, ma a livello linguistico è esattamente quello che facevano gli intellettuali rinascimentali quando dicevano paradigma o filosofia copiandoli pari pari dai greci.
Se ci pensiamo un attimo, non esiste, in italiano, un’espressione compatta come ghostare. “Interrompere improvvisamente ogni comunicazione con qualcuno ignorandolo completamente come se non esistesse”? Troppo lungo. Con ghostare fai tutto in due sillabe e mezzo.

E poi c’è il gusto ludico, l’ironia, il voler giocare con la lingua come con la plastilina. Chi dice bro, o sono troppo gasato non lo fa per pigrizia: lo fa per appartenenza a un certo codice comunicativo. È anche pragmatica linguistica, oltre che moda.
Ma allora dobbiamo rassegnarci? Più che rassegnarci, dobbiamo rilassarci. I prestiti linguistici non sono una minaccia: sono strumenti. Prendiamo parole da lingue più forti o più visibili (oggi l’inglese, ieri il francese, domani chissà), e le adattiamo alle nostre esigenze comunicative. Non è un’invasione, è una collaborazione. La Crusca non si è ancora data fuoco, quindi possiamo dormire tranquilli.
Il punto è che l’italiano non si sta snaturando. Sta facendo quello che ha sempre fatto: assorbe, metabolizza e ridefinisce. Ti sembra una lingua debole? No. Ti sembra una lingua pigra? Neanche. E attenzione: accettare un anglicismo non significa inginocchiarsi. Immaginiamo le parole come utensili. Se funzionano, restano. Se non servono, le lasciamo perdere. Qualcuno potrebbe giustamente chiedersi, allora: “Perché prendiamo parole dall’inglese e non dal lituano o dal basco?”Perché non è solo una questione linguistica, ma geopolitica. Le lingue dominanti impongono il loro lessico nel mondo, e l’inglese, oggi, è la lingua della tecnologia, del lavoro globale, del cinema, della musica, dei meme. Tradotto: è una lingua simbolicamente potente.
Il vero problema: non le parole inglesi, ma l’ansia da purezza
La domanda non è “perché diciamo call invece di ‘chiamata’?”, ma: perché ti dà così fastidio? L’idea che esista una lingua “pura” è una fantasia ottocentesca, un po’ come i duelli al tramonto o i baffi a manubrio. Nessuna lingua è mai stata pura. La purezza, in linguistica, è solo un modo per sentirsi migliori degli altri. E allora sì, continueremo a dire linkare, scrollare, mutare, postare.

Perché sono utili, immediate, e spesso non c’è una vera alternativa italiana che funzioni allo stesso modo. (Condividere un contenuto multimediale sulla propria bacheca digitale? Ma ti pare?)
La morale della favola? Viva i forestierismi (e pure lo zio Franco)
Se usiamo l’inglese, non è perché l’italiano non basta, ma perché ci piace mischiare, giocare, adattare. Possiamo usare “triggerato” e “letteralmente” nella stessa frase senza doverci scusare con Dante Alighieri in sogno. E no, non serve una crociata contro l’anglicismo. Serve solo un po’ di spirito critico, un po’ di storia della lingua e, soprattutto, la consapevolezza che parlare bene l’italiano non significa tenerlo sotto vetro. Significa saperlo usare anche per dire “questa cosa è molto cringe”.
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